Carissimo Iosif (2019 - 2021) è un racconto epistolare ambientato a Venezia. Un dialogo tra due linguaggi – fotografia e prosa – e un terzo interlocutore: Iosif Brodskij.

È la storia successiva alla fine di una relazione, quando l’amore resiste comunque. Un lutto emotivo.

Il tempo del dopo non è mai definito. I contorni sono incerti, elastici. Smagliature dell’anima. Un anno dura un giorno, quattro stagioni diventano quattro anni, quattro viaggi. Ventiquattro ore.

en

Prologo.

Carissimo Iosif,
Venezia sta per scomparire. A volte vorrei farlo anch’io.

Mi chiamo Vittoria Persi.

Non mi conosce, ma imparerà a farlo e, soprattutto, a perdonarmi per disturbarla.

Se fossi capace di avere legami non le scriverei, sarei in compagnia della donna che amo e che non so amare. La stessa che dice di volermi bene e di non volere vedermi. Chi stia prendendo in giro chi, non lo sapremo mai.

Le scrivo, Iosif, perché ho bisogno di parlare con qualcuno e lei è l’unica presenza in questa assenza che devo imparare a vivere.

Un vuoto non si colma a prescindere. Non mi manca qualcosa, mi manca lei. Non mi serve un surrogato di riempimento.

È una questione di incastri, devono combaciare. Essere armoniosi. Non esiste un bilancino per gli stati d’animo. Quanto pesa una mancanza? Una mancanza è una mancanza e il peso specifico è soggettivo. Piuttosto, nel mio caso, il troppo amore per la solitudine mi ha portata a ponderare male e scegliere la fine del nostro rapporto. Grande errore? Ancora non l’ho capito.

L’assenza è la mia relazione e sto tristemente bene.

C’è chi non sa stare da solo e chi non sa stare in compagnia, sono forme di paura entrambe. Tuttavia reputo avvantaggiato chi sa stare da solo.

Mi diceva che ero pazza. Lo sapevo già.

Cosa percepisce lo sguardo quando qualcuno di caro inizia ad andare via?

Una separazione, un allontanamento, una partenza. Una fine. Tutto è rallentato, solenne, si osserva, gli occhi viaggiano, non si fanno sfuggire nulla, la scia del movimento. Una moviola emotiva. Tutto sembra più chiaro, ma non lo è affatto.

La memoria è un film confuso, a volte muto, di immagini effimere, evanescenti.

Sembrano sfocate ma sono mosse, fotogrammi che si sovrappongono e non corrispondono. L’animo triste decostruisce il paesaggio. La città svanisce. Ma da lontano, ancora per un po’, i contorni sono definiti. Si possono vedere i fantasmi. Poi, ogni cosa si dissolve.

«Perché in questa città un uomo conta più per la sua silhouette che per i suoi connotati individuali, e una silhouette si può migliorare».

Aveva una fotografia scattata dal finestrino di un treno in corsa. Una vegetazione mossa, un andare incerto, la gioia del perdersi. Non so quale storia avesse per lei quella stampa.

L’ho vista una volta per sbaglio, la conservava avvolta nella carta velina tra due cartoncini. Non aveva né firma, né dedica. Non ne voleva parlare.

Non ho talenti, mi piacerebbe sapere disegnare, suonare uno strumento, cucire. Potessi fotografarla, restituirei Venezia da quel finestrino in corsa, dove i pensieri vanno più veloci dei piedi e degli occhi. E con lo sguardo l’acqua si muove, è fluida. Sì, basterebbe un centoventicinquesimo di secondo, ma non sarebbe onesto nei confronti dell’acqua e del tempo. Preferirei dipingerla con occhi, mano e cuore tremanti.

Mi manca come se mi mancasse da ieri, ma sono già trascorsi tre anni. Manca come una che potrebbe tornare; manca come una che non tornerà mai.

Al risveglio ero amareggiata, rattristata da questa capacità di rimpiazzare, sostituire. Rimuovere. Sì, andare avanti, ma anche con una stratificazione emotiva senza residui.

«Un oggetto, dopo tutto, è ciò che rende privato l’infinito».

Quel sogno è il recondito pensiero dal quale nascono questa lettera e questi quattro viaggi a Venezia per cercare «di dipingere l’immagine di questo posto [...] nelle quattro stagioni».

Vado per fare pace. Lei, Iosif, dice che bisognerebbe provarla «anche per i divorzi – per quelli in corso e per quelli già conclusi».

Il mio, più che un divorzio, è un lutto. Allora eccomi qui, a cercare di accettare questa separazione.

Troppo amore, troppo lenta. Non ero il suo mondo e non avrei mai potuto farne parte. Squattrinata, caotica e scombinata. Sono per perdersi, non per ottimizzare. Mondi inconciliabili, non contaminabili.

Però ero la sua lingua. Per lei la norma, per me l’eccezione che riconcilia.

Incompatibili. Non potevamo condividere, non riusciva a vedermi vicina. Se volevo l’ombra mi costringeva al sole, se volevo il sole sceglieva il punto dove l’ombra sarebbe arrivata per prima. Eppure c’erano due panchine, poco distanti, potevamo essere abbastanza vicine ma abbastanza lontane per osservarci, sorriderci. Dall’ombra avrei immaginato di corteggiarla,
di innamorarmi di lei. Tornare a casa insieme prendendoci in giro. Ma no, dovevo soffrire al sole.

Continuo a immaginarla senza vederla, senza finale felice.

Estate.

Ansia a intermittenza, passeggio nervosa in cucina, aspiro vorace. Devo andare. Non sono in ritardo ma mi ci sento. Per fortuna sono sola, sarei scostante e distruttiva e lei lo desterebbe.

Oggi avrei la capacità di guardare nei suoi occhi e vedere l’amore, oltre il mio cattivo carattere.

Mi tremano le gambe, non riesco ad andare in stazione con i mezzi. Mi regalo un taxi. L’autista è di Arles. Parliamo della lavanda e delle saline rosa. Mi racconta della legione straniera francese. Canta Edith Piaf.

Arrivo in Centrale, la folla mi confonde.

Vorrei fosse qui, lasciarmi innervosire da lei, farmi venire voglia di prenderle la mano, cercarla nello sguardo, scostarle i capelli e baciarle il collo.

Il treno sta per partire.

Mi aspettano acqua, chiacchiere, imbarazzi, gioie e fastidi. Mi irriterà l’eccessivo entusiasmo altrui, mi si potrebbe rimproverare la mia stitica esternazione.

I giorni felici sono quelli in cui manca di più. Vado.

Sistemare uno spazio assente. Iniziare una nuova relazione. Lasciare che il vuoto degli ambienti impari a conoscermi. Prefigurare, anche se il risultato non è ancora nitido. Valorizzare le superfici. Occuparle bene, con armonia. Nuove visioni, nuovi viaggi sul posto. La percezione del luogo. Le definizioni sono confini per l’immaginazione. Aveva bisogno di sentirsi in provincia, poteva farlo, bastava non vedere «le lettere di scatola che dicevano VENEZIA».

Gironzolare e improvvisare, sapendo che non mi aspetta nessuno, mi fa sentire libera. Anche per questo non ha funzionato e non funzionerà mai con nessuna.

Ho comprato i biglietti del vaporetto per San Michele, la bigliettaia mi chiede venti euro. Non sono brava a far di conto, ma che voglia il doppio di quanto dovrei darle lo capisco pure io. Le domando perché, ci siamo solo lei e io. “Cinque euro a tratta, due tratte per due persone fa venti euro”. “Ma sono sola”. “Ah, allora sono dieci euro”.

A quanto pare non si va da soli a Venezia. Non è contemplato. Invece, per me, vederla da sola, è un privilegio. «Non aggrava [...] complessi e insicurezze», al contrario, come nell’immensa vastità della natura non mi sento piccola, sto bene, coccolo lo sguardo. Quei momenti in cui percepisco la felicità al punto di dirlo a voce alta: sono felice.

Autunno.

Torno, Iosif. Parto di sera e dormo a Venezia.

È freddo, se affittassi una stanza in un appartamento correrei il rischio di non trovare riscaldamento e scaldabagno adeguati. Per quella «serenità [...] indispensabile», questa volta ho preso una stanza in albergo, uno tra i pochi aperti in autunno con tariffe ragionevoli. Anche perché adesso si trovano più case in affitto che alberghi.

In realtà non fa così freddo, è umido. Attraverso ponte degli Scalzi, c’è un velo di nebbia. Suona la sirena che annuncia l’arrivo dell’acqua alta.

Un autunno a tratti luminoso e con le maree più alte della storia. Centottantasette centimetri, molti più dei miei.

Intuisco la direzione e vado. Ogni tanto controllo l’ora, non vorrei fare tardi per il check-in, ma so che mi aspettano. Vago, a volte sbaglio, sospesa al termine di una calle, poi all’improvviso l’epifania dell’acqua.

Lo zaino e la sciarpa mi fanno sudare, abbasso la cerniera della giacca, ho in mano una busta con gli stivali di gomma.

Una volta arrivate in camera, calda, dai tessuti rossi, noi cariche, con
la fatica del camminare e dell’umidità, avremmo fatto l’amore. Scivolare
sul suo corpo, lambirne ogni parte, lasciare il suo odore in viso e sorridere quando riaffiora. Poi saremmo uscite in cerca di cibo, paonazze, spettinate e contente.

Uno di quei momenti allarga-cuore in cui non avremmo litigato perché lei doveva lavorare e io volevo passeggiare. A Venezia niente estenuanti trattative per raggiungere il compromesso per i nostri ozi: “Sì, ma veloce”. Veloci erano le nostre felicità.

Mi siedo a bere vino e mangiare tramezzini, l’acqua è a pelo, all’impatto con le fondamenta si impenna. Il bar dentro è pieno, i vetri sono appannati, c’è umidità anche lì, umidità da umanità.

Sembra tutto molto buono. Ordino velocemente ed esco, devo respirare. I piedi affondando nell’acqua, abbandono gli occhi, guardo da lontano le fondamenta Zattere, la vedo passeggiare collo nel cappotto, Iosif: sono nel suo acquerello. Lei è seduta con me, mi sorride tra le rughe, siamo anziane, beviamo vino e ci punzecchiamo come solo i vecchi che si amano ancora sanno fare. Ci alziamo e passeggiamo a braccetto, spiamo le persone dentro le vetrine.

Inverno.

Iosif, passo da casa e parto. Terzo viaggio. Posso trattenermi tre giorni e due notti, non di più.

Eccomi, ancora una volta, durante la sua stagione, il suo mese: gennaio. Ha una certa sacralità. Ancora più inopportuna e presuntuosa mi sembra questa lettera.

Durante il viaggio ho riletto Fondamenta degli Incurabili, per la quarta o quinta volta. Benché le sue parole, Iosif, siano le stesse, io non sono la stessa persona e l’attenzione cade ogni volta in direzione diversa. È il viaggio di andata, potrebbe essere il penultimo.

Per questa idea di dipingere Venezia nelle quattro stagioni, dopo l’inverno mi mancherebbe la primavera. Non so cosa aspettarmi. Se una guarigione
da me o da lei. Se non una situazione immutata, un grado maggiore di consapevolezza, di serenità. Apertura, rassegnazione. Attesa. Non lo so, magari tra qualche tempo lo capirò, allora le invierò una cartolina: una sola immagine e poche righe, promesso.

Volevo una cartolina dalla Cina.

Il confine tra la speranza e la resa. La fiducia e la sconfitta. La perseveranza e l’abbandono.

Scendo esaltata, sospesa nel sorriso sui gradini della stazione, non si scorge neppure la chiesa di San Simeon Piccolo. Saltello, leggera. Oltrepasso campo San Geremia, vado per rio di Cannaregio, fino alle fondamenta San Giobbe. Ogni cosa è avvolta dal caìgo.

Se non ti volti e ti concentri su ciò che hai davanti, ti viene voglia di abbandonarti, uno slancio e sparisci nel nulla, leggero, per sempre.

Non è necessariamente un pensiero triste, è più un senso di liberazione che di fine. È un piccolo slancio che provo ogni volta che mi sporgo verso il vuoto.

E non so se mi faccia credere che «per [me] non [sia] ancora finita» o se non sia proprio voglia di fine. Certo è che «trascina [...] fuori dal tempo» e mi rende invisibile.

Primavera.

Andiamo, carissimo Iosif, forse riusciamo a risparmiarci la pioggia. L’ultima stagione, l’ultimo viaggio, l’ultimo abbraccio.
È trascorso un anno. Cos’è cambiato? Forse nulla, a volte una serenità un po’ più stabile.

Arrivare in macchina è diverso, prima senti l’odore, poi vedi la laguna.

Mi sono persa un paio di volte, sino a ritrovarmi in piazzale Roma. Sono già arrivata a Venezia in auto, non avevo neppure dieci anni. Lo ricordavo più grande. Quei viaggi d’infanzia che più che una «scuola» erano una laurea honoris causa in «insicurezza e [...] disgusto per se stessi».

Epilogo.

«È la città ad abbandonare la pupilla» eppure il blu me lo porto negli occhi. Se li chiudo vedo ancora Venezia. Per qualche giorno posso sentirmi ancora lì: il mal di terra. Circondata dall’acqua.

Sì, Iosif, «un soggiorno a Venezia è la terapia migliore» e «questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro».

Ho cercato di cogliere, se non di creare, «il lato buono della [mia] bruttezza».

Lo sapevo già. L’avevo visto, mi ero sentita profondamente triste, ma non glielo avevo detto, non sarei riuscita a spiegarlo. Ho una foto di quel momento, meglio: dell’attimo prima che elaborassi il pensiero. Una di quelle volte in cui lei mi sembrava bellissima e io ero serena. Ero in balcone, osservavo da fuori a dentro, cucinava e beveva del vino. Le ho fatto delle foto senza che se ne accorgesse, poi mi ha sorriso. Quanta bellezza c’è nella semplicità, nella consuetudine che protegge. Conservo qualche altro episodio in cui ho creduto che se fossimo state solo noi saremmo state splendide, per sempre.

Sono rientrata: una folgorazione. Sono io il «facile bersaglio per l’oblio». Sarebbe arrivato il giorno in cui mi avrebbe dimenticata. Rimossa con maestria, come se non fossi mai esistita. Vittoria chi?

Sono io la morta. Senza lutto, senza memoria.

«Ma suppongo che si possa comunque parlare di fedeltà quando un uomo ritorna sul luogo del proprio amore, anno dopo anno, nella stagione sbagliata, senza nessuna garanzia di essere riamato. Perché, come ogni virtù, la fedeltà ha valore solo fintanto che è istintiva o idiosincratica, piuttosto che razionale. E poi, a una certa età, e quando si fa un certo genere di lavoro, essere riamati non è strettamente indispensabile. L’amore è un sentimento disinteressato, una strada a senso unico».

Grazie, Iosif.
La sua compagnia e il suo ascolto sono stati preziosi.

Vittoria Persi

© serena guerra